Recensioni

Il trequartista non sarà mai un giocatore completo, di Gianvittorio Randaccio


iltrequartistaIl trequartista non sarà mai un giocatore completo
Autore: Gianvittorio Randaccio
Genere: Racconti
Editore: ItaloSvevo, 2017
Articolo di: Raffaello Ferrante

Le parole sono importanti e se le sai ascoltare bene lasciano la scia. Anche quando pensi e ti concentri subito su qualcosa d’altro, se poni bene attenzione, loro son sempre lì. Persino nelle telecronache delle partite di calcio succede. Sembra impossibile ma se si pone attenzione ce ne si accorge. Un vero fuoriclasse tra i telecronisti in questo ambito è Mino Fucecchio. Lui è un ex calciatore e durante le telecronache, coadiuvato dal vero telecronista Bonfanti, dispensa parole con la scia a profusione. Tanto che ha cominciato a fare scuola anche fra altri ex calciatori e ora commentatori tecnici, su cui le tv sportive oramai investono sempre più a caccia di vere star. Ma Fucecchio per ora e chissà per quanto con le sue parole con la scia resta l’indiscusso numero uno… Giacinto Fizzoni, il suo allenatore, continua a rimproverarlo. Non può continuare a giocare in maniera così corretta. Lui in effetti ne è consapevole. Quando un avversario lo salta non riesce proprio a falciarlo come gli chiede il mister. Una volta però ha provato ad accontentarlo provando anche lui a mettere in atto il proverbiale “fallo tattico”… Inutile negarlo. Il quadro svedese è indubbiamente una delle grandi passioni dei calciatori. Spesso quando c’è brutto tempo e sono costretti a svolgere gli allenamenti al chiuso, non appena arrivano in palestra e lo vedono, i calciatori cominciano a darsi di gomito, a sorridere, quasi avessero davanti agli occhi una cosa proibita. Ed è bellissimo vederli li, tutti appollaiati, come uccellini sui rami di un albero, finché non arrivano gli allenatori a farli scendere…
Gianvittorio Randaccio è al suo esordio narrativo e senza dubbio con questa opera minimale e spassosa centra il bersaglio. Con una scrittura paradossale, quasi favolistica, oserei dire “rodariana”, Randaccio racconta la bellezza del gioco del calcio dal suo personalissimo e originale punto di vista. Con raccontini brevissimi e paradossali, e aforismi ficcanti, Randaccio gioca con il meta-linguaggio calcistico osservando come il calcio sia diventato negli anni ‒ sopratutto da quando è diventato uno sport mediatico ‒ una lingua volontariamente delirante, nella quale l’esasperazione degli stereotipi, dei luoghi comuni va a braccetto con un intrattenimento dal fascino supremo. Dove si può tranquillamente affermare che “Il doping, tra le altre cose, è un gerundio” o che “I tifosi del Crotone sono quasi tutti calabresi”.

Recensioni

Il goal più bello è stato un passaggio, di Jean-Claude Michéa


Il goal più bello è stato un passaggio
Autore: Jean-Claude Michéa
Traduzione di: Roberto Boi
Genere: Saggio Sport
Editore: Neri Pozza, 2017
Articolo di: Raffaello Ferrante

Se le antiche forme di dominio politico lasciavano che segmenti interi della vita individuale e sociale esistessero al di fuori di esso, con il capitalismo si è assistito all’esatto contrario. Sono proprio le manifestazioni esterne che ad esso sfuggono a dover essere piegate alle sue leggi. Ovvio che un fenomeno di massa come il calcio quindi non sia sfuggito a questo graduale processo di “vampirizzazione”. E infatti è sotto gli occhi di tutti come nell’industria mondiale del divertimento il calcio sia oramai da un lato fonte di profitto inesauribile, dall’altro un efficace strumento di soft power, in poche parole il vecchio caro “oppio dei popoli”. Ciò non deve però far credere che il calcio e tutto il suo circo mediatico ed emozionale possano essere ridotti alle mere teorie meccanicistiche di Jean-Marie Brohm. Questo perché non si può certo dimenticare che l’industria del divertimento agisce da sempre secondo un proprio doppio binario. Da un lato spinge al limite la produzione e l’invenzione di prodotti sempre nuovi e appetitosi per il mercato, dall’altro deve necessariamente tendere a recuperare tutta una serie di elementi provenienti dalle diverse culture popolari preesistenti. Questo le permette di sfuggire all’utilitarismo liberista e alla sua ossessione per la redditività ad ogni costo. Dunque l’industria pallonara è sì oggi “oppio dei popoli”, ma resta pur sempre quello che Antonio Gramsci considerava come un “regno della lealtà umana esercitata all’aria aperta”. Ma è davvero così?
Il filosofo francese Jean-Claude Michéa raccoglie in questo snello e breve saggio tutti i suoi scritti e le sue disquisizioni in materia calcistica Si tratta di varie riflessioni elaborate per diverse occasioni ma tutte volte a rendere omaggio a quella straordinaria e viscerale passione capace come nessun altra di conquistare e coinvolge trasversalmente l’intera umanità. Lui cerca così da un lato di analizzare dal punto di vista filosofico e sociologico l’origine di questo sport operaio tanto popolare e le sue diverse implicazioni anche attraverso i tormentati rapporti con le élite di intellettuali che di volta in volta vi si sono accostati. Dall’altro prova a scagionarlo dalle accuse di essere oramai solo un’arma di distrazione di massa, quell’oppio dei popoli strategicamente dato in pasto alla massa/prodotto dalle società capitalistiche moderne. Perché se anche il calcio moderno è improntato solo ed esclusivamente al risultato, ci sarà pur sempre la giocata, il guizzo, la poesia di una serpentina di un estroso campione capace di scaldare i cuori a spezzare la fredda logica del profitto. Proprio come quell’Eric Cantona, geniale ex calciatore transalpino, citato non a caso nel titolo di questo interessante saggio.

Interviste

LA MIA INTERVISTA A COSIMO ARGENTA PER LA RUBRICA ‘CAFFE’ SPORT’ SU MANGIALIBRI


Cosimo Argentina: per il Taranto in A pellegrinaggio a casa di Sciannimanico
Articolo di: Raffaello Ferrante

Interviste a scrittori tifosi di calcio per parlare soltanto di calcio: dello stadio, della fede, dei giocatori preferiti, delle nemesi, delle figurine…e di tanti vecchi sogni: questa è la nostra rubrica “Caffè Sport”. Classe ‘63, tarantino di nascita e fede – ma vivendo a Milano da anni di fede anche rossonera -, ex calciatore (semi professionista) e ora scrittore (professionista) Cosimo Argentina è il maschio adulto solitario del panorama letterario italiano. Uno impastato e cresciuto a pane, calcio e letteratura. Chi meglio di lui dunque come ospite del nostro spazio in bilico tra parole e pallone?

Per fare il figo à la Gianni Mura volevo iniziare l’intervista cercando un parallelismo tra la tua narrativa e l’ars pedatoria di qualche ex calciatore. Ma siccome nonostante la barba bianca non sono Gianni Mura non m’è venuto in mente nessuno che unisse la ferocia gattusiana delle tue parole incise con lo scalpello al talento cristallino baggesco della tua prosa mischiata all’outsiderismo (si dice?) antidivistico del tuo vivere la vita e la carriera da scrittore, diciamo à la Darione Hubner. Ce l’hai tu qualche calciatore nel cui modo di stare in campo rivedi il tuo modo di scrivere e riprodurre il mondo che ti circonda?
Se dovessi esagerare direi Éric Cantona. Era un duro, ma sapeva quello che faceva, con la palla tra i piedi. Se dovessi trovare un’alternativa Nestor Combin, un franco argentino che giocò nel Milan nel Torino, nella Juve e nella Fiorentina, un vero combattente massacrato durante la finale di coppa Intercontinentale dai suoi connazionali dell’Estudiantes. A scendere di livello ti dico Alan Minter, ma mi sa che quello era un pugile sicché non vale. A scendere ancora ti dico Angelo Frappampina.

Sei stato calciatore semi professionista arrivando alle soglie della prima squadra ‒ dividendo per altro la retroguardia rossoblu con il grande Angelo Gregucci. È nato dunque prima l’Argentina calciatore dello scrittore?
Senza dubbio. Vivevo col pallone sotto il braccio, fin da piccolo. Non leggevo altro che la Bibbia Album Figurine Panini, potevo citarti a memoria la carriera di Roberto Antonelli da Morbegno e l’albo d’oro della Mitropa Cup. Per scrivere ci vuole la distanza giusta e io al tempo ero impegnato a vivere e vivere voleva dire consumare la scarpe sotto casa, cercare uno sterrato in periferia e fare il tocco per le squadre. Far cucire a mia madre il numero cinque su una slabbrata maglietta blu con risvolti gialli o imitare una discesa di Pasinato sulla fascia destra. La scrittura e la lettura sarebbero arrivate dopo, molto dopo.

Ti sei mai pentito di esserti fermato a un passo dal professionismo?
No. Guardando scendere in campo altri come ad esempio, per citare quelli con cui ho avuto la ventura di giocare, Gregucci e Progna, devo ammettere che erano di un altro livello. Io ero un buon difensore, ma c’è un punto oltre il quale quelli davvero bravi si staccano dalla massa ed emergono e io non avevo le carte in regola per arrivare. Dopo i fasti iniziali ho fatto un po’ di seconda e terza categoria, ma in una mediocritas assoluta.

Cosa ha rappresentato il calcio per te da bambino, da ragazzo e ora?
Da bambino il gioco, da ragazzo tutto. Tutto vuol dire arrivare a scuola ai salesiani un’ora prima, cioè alle sette e mezzo, per poter giocare con due porte vere. Vuol dire chiedere alla propria ragazzina posso chiamarti Alviero Chiorri? Preparare le trasferte con i tifosi del Taranto e via discorrendo. Oggi il calcio lo seguo, ma con un po’ di distacco. Ma se c’è una partita me la vedo, anche se è il posticipo di serie C o il campionato juniores. Oggi apprezzo il gesto tecnico, il lato agonistico, nonostante il distacco citato, mi emoziona ancora, questo gioco. Arrivando a San Siro per la partita di addio di Marco Van Basten ho provato i brividi come da ragazzino. Oggi nel sentire i critici farfugliare di tattiche e litigare su un rigore mi rompo le palle perché se sei sul rettangolo verde è tutta un’altra storia. Gli sportivi da divano mi annoiano.

Il tuo primo ricordo da tifoso a quando risale?
Nel 1969 mio zio mi portò a vedere un Taranto-Catania zero a zero. Partita noiosa, ma a dieci minuti dalla fine l’ala sinistra del Taranto, Bruno Beretti, si lanciò a volo d’angelo su un traversone in area e prese la palla di testa. Il cuoio impattò contro la traversa. Mi sembrò un gesto bellissimo e vidi che la gente si era emozionata e sentii quell’uhuuu che per me è più esaltante dell’urlo goool. Quello è il primo ricordo.

Il calcio come la letteratura è capace di raccontare e scandire le grandi emozioni della nostra vita. È per questo che compare spesso nei tuoi romanzi?
Perché è la metafora del combattimento. Chi non ha fatto la guerra, come scrittore, perde un 45% della sua forza narrativa. Il calcio porta acqua al mulino della disputa. E poi narro spesso di chi sono e chi sono stato e cosa avevo intorno e intorno a me spesso c’era il calcio foss’anche ascoltare mio padre e mio zio che bestemmiavano guardando il derby di Milano alla televisione.

Dimmi il tuo undici calcistico e quello letterario ideale…
Mah, sono umorale e cambierei idea da un giorno all’altro, ma ci provo. Albertosi, Carlos Alberto, Maldini (o Cabrini), Pirlo, Krol, Beckenbauer, Cantona, Neeskens, Cruijff, Maradona (Pelé, Messi), Cristiano Ronaldo, ma potrei comporre altre sette formazioni, a dire il vero, perché lascio fuori troppi fenomeni come Platini, Zidane, Van Basten, Rivera, Mazzola padre e Mazzola figlio, Baggio, Sivori e tutta l’Olanda degli anni Settanta, Alfredo Di Stefano… In letteratura… Gabriel Garcia Márquez, Dostoevskij, Conrad, Edgar Allan Poe, Bukowski, Philip Dick, Kafka, Céline, Hemingway, Pessoa (o Mario Rigoni Stern) e Cormac McCarthy. Ma anche qui restano fuori in troppi.

E i tuoi 90 minuti memorabili?
20 novembre 1977, serie B, Taranto-Bari 1-0. Rete al 73’ di Erasmo Iacovone.

Da bambino poster in camera di?
Vari nei vari anni. Gigantografia di Gianni Rivera presa da “Forza Milan”. Poster dell’Italia degli europei dell’80, poster di Jan Tomaszewski, poster di Rudy Krol, poster dell’Olanda 1974, poster di Luciano Chiarugi che segna da calcio d’angolo, gigantografia di Mario Kempes e immagino altri ancora.

Conservi qualche cimelio dei tuoi anni da tifoso?
Sì, il gagliardetto del Taranto calcio e quello del Monza che si scambiarono a centrocampo Ruben Buriani, capitano del Monza e Cicciobello Nardello sul finire degli anni Settanta. Pallone di cuoio di un Taranto-Pescara di coppa Italia risolta nel finale da Federico Caputi. Autografi dei calciatori del Taranto degli anni ‘70. L’autografo di Eusebio che incontrai in Angola. Gli album Panini di quattro cinque anni. Tagliandi vari di partite del passato tra cui un Milan-Inter 6 a 0. La sciarpa della Fossa dei Leoni, il primo gruppo organizzato di ultras, datata 1970… anzi no, la sciarpa della Fossa l’ho regalata a un alunno cinque anni fa perché avevo incontrato un quindicenne più malato di me di calcio e allora meritava di averlo lui, il cimelio, un simbolico passaggio di consegne.

Taranto in serie A. Cosimo Argentina disposto a…?
Scrivo la biografia di Sant’Agostino e porto la prima copia firmata (solo da me visto che Sant’Agostino ha tirato le cuoia da un pezzo) ‒ andandoci a piedi ‒ fino a casa di Arcangelo Sciannimanico, dovunque abiti.

I LIBRI DI COSIMO ARGENTINA